Quando e perché andare in Psicoterapia

Andare in Psicoterapia: chiedere aiuto non è mai segno di debolezza, al contrario è un atto di forza e coraggio

 La psicoterapia ha due obiettivi fondamentali: uno è alleviare la sofferenza, l’altro è promuovere il benessere. Da una parte, quindi, la psicoterapia si propone di ridurre le paure irrazionali, le reazioni depressive e i sentimenti dolorosi di ogni tipo come quelli suscitati da traumi avvenuti in passato; dall’altra parte incoraggia l’apprendimento di nuove capacità, nuovi modi di considerare e vedere la vita, strategie migliori per relazionarsi con sé stessi e con gli altri e un senso allargato delle proprie possibilità.

Molte persone che si sottopongono a psicoterapia hanno tra i loro principali scopi quello di capire sé stesse: vogliono, in altri termini, rendersi visibili al loro terapeuta e rendersi un po’ più visibili anche a sé stesse. Ma spesso molti pensano che capire sé stessi in terapia significhi principalmente scoprire segreti o traumi infantili rimossi, causa di sofferenze nella vita adulta. In realtà, per quanto ciò sia indubbiamente importante, una psicoterapia è, e deve essere, orientata a far sì che la persona si metta in contatto con le proprie risorse non ancora identificate, a volte addirittura negate, perché solo in questo modo potrà crescere in termini di benessere e autostima. Le persone in terapia devono, cioè, capire quali forze possiedono e quali potenzialità non hanno mai esplorato fino a quel momento, per acquisire la sensazione di essere in grado di guarire sé stesse ed crescere in termini di sicurezza.

Da ciò ne consegue che una buona psicoterapia deve trattare senza dubbio i dati negativi della realtà di ogni paziente, ma dovrebbe comunque sempre volgerli in positivo; come scrive Nathaniel Branden nel suo libro I sei pilastri dell’autostima, ‘per quanto sia pericoloso negare l’assassino che c’è in ciascuno di noi, può essere altrettanto grave negare l’eroe che c’è in noi: è spesso facile vedere la parte nevrotica della persona; la parte difficile – quindi la vera sfida – è vedere ed essere in grado, come psicoterapeuta, di aiutarla a mobilitare la sua parte sana’.

Uno degli aspetti che cerco di far capire ai miei pazienti è che l’essere umano, per natura, è un risolutore di problemi e che le soluzioni che spesso trova per affrontare le difficoltà e le sfide che la vita gli propone mirano, seppur non sempre in modo consapevole, a soddisfare i suoi bisogni. Non sempre i mezzi che tuttavia ognuno di noi adotta come soluzione ai problemi sono positivi: a volte, purtroppo, ricorriamo a modalità autodistruttive – nevrotiche – seppur l’intenzione di fondo sia sempre e comunque quella di avere cura di noi stessi. Cerco di spiegare meglio questo concetto: da piccoli possiamo negare emozioni e sentimenti che proviamo – come paura, rabbia o tristezza – perché in quel momento temiamo che le persone importanti per noi, primi tra tutti i nostri genitori, possano disapprovare quello che sentiamo; sulla base di tale convinzione mettiamo in atto un meccanismo di difesa reprimendo le nostre più profonde emozioni. La repressione, in quel momento, aveva per noi la sua funzionalità: un valore di sopravvivenza, un tentativo di migliorare la nostra vita di bambino. Crescendo tali meccanismi repressivi possono continuare ad essere messi in atto come strategie di sopravvivenza ogni volta che proviamo emozioni dolorose simili a quelle infantili, procurandoci però solo del male, male che emerge nella maggior parte dei casi attraverso dei sintomi nevrotici di tipo fobico, ossessivo o depressivo.

Ecco allora che in psicoterapia il paziente deve essere aiutato a capire che certi suoi sintomi o comportamenti, fonte purtroppo di sofferenze, hanno in realtà una certa utilità funzionale e affondano le loro radici nell’infanzia, quando da piccolo ha cercato in qualche modo di alleviare le sue sofferenze e sopravvivere. Molto spesso, una volta comprese tali strategie di sopravvivenza, la loro esistenza perde ogni utilità e la persona è più libera di considerare soluzioni alternative e più adatte alle sue necessità.

A livello tecnico, i due metodi che maggiormente contraddistinguono il mio lavoro in psicoterapia  sono, da una parte l’uso di tecniche strategiche per ridurre le paure irrazionali e alleviare la sofferenza più in generale; dall’altra il lavoro sulle sottopersonalità o Stati dell’Io, cioè componenti dinamiche della psiche della persona che hanno un loro distinto punto di vista, dei loro valori e una personalità tutta loro. Non si tratta chiaramente di personalità multiple in senso patologico, ma di normali costituenti della psiche umana che molti di noi non si rendono conto neppure di avere.

Cominciamo col vedere queste sottopersonalità: oltre all’io Adulto, che riconosciamo come ciò che siamo, c’è nella nostra psiche un io Bambino, la presenza ancora viva del bambino che siamo stati. Ma forse questo bambino noi lo abbiamo represso molto tempo fa, insieme con i suoi sentimenti, percezioni, bisogni e risorse, spinti dall’idea, errata, che per diventare adulti fosse necessario ‘assassinarlo’. Capire tutto questo significa convincersi che nessuno possa essere completamente intero se non si ricongiunge e non crea un rapporto consapevole e benevolo con il proprio io bambino. Quando questo aspetto viene trascurato, la tendenza è quella di cercare la riconciliazione all’esterno, con gli altri, ma è qualcosa che non può funzionare: la riconciliazione qui non deve essere tra l’io e gli altri, ma tra l’io Adulto e l’io Bambino. Una persona che soffre tutta la vita perché si sente rifiutata difficilmente si renderà conto che il problema si è interiorizzato ed è lei stessa, ora, a rifiutare se stessa, il suo io Adulto a rifiutare l’io Bambino. Per questo nessuna fonte di approvazione esterna riuscirà mai a guarire la ferita.

Oltre all’io Bambino, nella nostra psiche c’è anche un io Genitore, in particolare un io Madre – che è la componente della psiche che contiene l’interiorizzazione di aspetti di personalità, di prospettive e di valori della propria madre – e un io Padre – che è la componente della psiche che contiene l’interiorizzazione di aspetti di personalità, di prospettive e di valori del proprio padre –.

Altre sottopersonalità che entrano spesso in gioco nella vita pratica sono l’io Adolescente, l’io dell’Altro Sesso, l’io Esteriore e l’io Interiore. Ciascuna di queste sottopersonalità ha bisogno di essere capita, rispettata, accettata e benvoluta: un aspetto fondamentale della terapia è bilanciarle e integrarle, lavoro questo che la persona difficilmente riesce a fare da solo, e che in realtà risulta fondamentale per lo sviluppo di una sana autostima dell’individuo. In effetti, una delle barriere che impediscono all’autostima di crescere possono essere le voci dei genitori che bombardano la persona con messaggi critici e a volte addirittura ostili. In terapia dobbiamo cercare insieme di mettere a tacere queste voci e trasformare un io Madre o un io Padre ostile in una risorsa positiva.

Voglio concludere con questa riflessione: se il processo per avere una buona autostima fosse semplice, se non comportasse niente di arduo e difficile, se non occorressero perseveranza e coraggio, allora tutti l’avremmo. Ma una vita senza sforzi, lotte e sofferenze non esiste, è solo e soltanto un sogno infantile.

 

Ilaria Artusi
L'autrice: Ilaria Artusi
Psicologa e psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Breve Strategica, training autogeno ed autoipnosi. Svolgo attività di consulenza clinica, sostegno psicologico e psicoterapia rivolta al singolo, alla coppia e alla famiglia. Tengo cicli di incontri di divulgazione psicologica rivolti a un pubblico di non specialisti.

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